Associazione culturale Teatro del Sangro

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Residenze Artisti nei Territori Residenze 2022-2024

PROGETTO - AI SENSI DI ART.43 DEL D.M. 27 LUGLIO 2017

Itaca - Residenza per Artisti       TEATRO DEL SANGRO

 Il progetto triennale Itaca - Residenza per Artisti - prevede un grande lavoro di promozione e valorizzazione degli artisti del territorio, di alcuni maestri della scena contemporanea e di tre compagnie teatrali dall’estero, con una particolare attenzione ai giovani artisti abruzzesi.

Una della linee guida del lavoro che vogliamo approfondire attraverso il progetto Itaca: il teatro inteso come “teatro dei ritorni”, un progetto artistico fortemente orientato, che tenta di ripensare e re-inventare attivamente alcuni aspetti fondanti della tradizione teatrale. Tre ritorni caratterizzano Itaca - Residenza per Artisti -; il ritorno all’attore, il ritorno al racconto e il ritorno al rito. Abbiamo chiamato Itaca questo progetto triennale perché riteniamo che ci sia una filosofia che accompagna i passi della vita degli attori e dei registi teatrali oggi, una filosofia che si può esprimere in un verbo che è speranza, promessa e pure invocazione: tornare. Tornare è un moto verso l’origine. Non si torna al passato ma all’origine.

Itaca - Residenza per Artisti - è una fucina di residenze ma anche di incontri, dibattiti, presentazioni di libri, laboratori, mostre e spettacoli!

Itaca - Residenza per Artisti -  intende ospitare pratiche teatrali e culturali che si configurano sotto il segno di una sorta di Rivoluzione Conservatrice.

Tutti gli artisti chiamati a dare sostanza al progetto triennale 2022-2024  Itaca - Residenza per Artisti - sono figli della rivoluzione teatrale novecentesca: il teatro non può che essere rivolta, il teatro non è solo “spettacolo” ma un modo di essere e reagire. Tutti gli artisti che saranno ospitati in residenza sono inseriti a pieno titolo nella tradizione della rivoluzione teatrale novecentesca,  perché si sono formati come teatranti attraverso esperienze di marginalità artistica, produttiva e territoriale, dove l’attore ha dovuto re-inventare e ri-definire il suo ruolo e il suo sapere, dove il regista ha dovuto re-impostare i dispositivi di spettacolo e i saperi della scena cercando una comunicazione più autentica con gli spettatori. Questi attori e questi registi si sono spesso dovuti “inventare” come organizzatori per dare visibilità e respiro a un teatro fatto inizialmente fuori dal sistema dei teatri. Eppure queste esperienze maturate nel solco del “movimento” del nuovo teatro italiano (che racchiude artisti e gruppi molto diversi tra loro, realtà teatrali classificate nel Novecento come “avanguardia”, “teatro di ricerca”, “teatro sperimentale”, “teatro contemporaneo” che avevano ed hanno come connotato principale la ricerca di un rinnovamento profondo del teatro rispetto alle convenzioni cristallizzate della scena ufficiale, rinnovamento che passava e passa attraverso l’invenzione e la pratica di un’alternativa al teatro ufficiale non soltanto sul piano delle forme espressive ma anche su quello dei modi di produzione e fruizione) non portano questi teatranti a compiere scelte artistiche di rottura con la tradizione teatrale (come è successo ad altri artisti italiani ed europei negli ultimi trent’anni, e ci riferiamo ad alcune esperienze definite “estreme” dove  sembra perdersi la specificità del gioco drammatico a favore di un risultato espressivo ibrido, a metà strada tra arti visive, installazioni e performance anni ’70).

Se definiamo provocatoriamente come una Rivoluzione Conservatrice il progetto artistico Itaca - Residenza per Artisti -, è perché riteniamo che ci sia una filosofia che accompagna i passi della vita degli attori e dei registi teatrali oggi, una filosofia che si può esprimere in un verbo che è speranza, promessa e pure invocazione: tornare. Tornare è un moto verso l’origine. Non si torna al passato ma all’origine. Il “rivoluzionario conservatore” è colui che pensa dinamicamente il passato. Egli rigetta il passato che si coniuga al passivo, un lasciarsi andare al rimpianto di ciò che ineluttabilmente è già stato. L’essenza del “rivoluzionario conservatore” si scontra con l’idea del passato perché guerreggia con l’usura imposta dal tempo andato, resiste alle intemperie del già stato, salvando ciò che non muore da ciò che è trascorso. Il suo è un ripensare attivo delle origini, in cerca di invarianze, oltre le distruzioni e le dissipazioni del tempo. Il suo nemico principale è il passatismo.

Ecco quindi che anche Itaca - Residenza per Artisti - sotto questa luce ci appare e ci si presenta come un “teatro dei ritorni”, un progetto artistico che tenta di ripensare e re-inventare attivamente alcuni aspetti fondanti della tradizione teatrale. Tre ritorni caratterizzano la pratica di teatro di cui parliamo; il ritorno all’attore, il ritorno al racconto e il ritorno al rito.

Il ritorno all’attore significa innanzitutto che l’attore ri-diventa il cuore dell’azione teatrale. Corpo, parola, azione, emozione, intenzione; in una parola il personaggio. Il teatro è finzione, visione. Il teatro per l’attore è disciplina. Ogni esplosione visionaria deve essere padroneggiata. Il traboccare fisico delle emozioni deve essere canalizzato, controllato, e così divenire un’ondata che porta con sé segni espliciti. L’attore è un individuo che riesce ad acquisire un controllo del proprio corpo, a gestirlo in modo automatico, al fine di poter trasmettere e trasformare le proprie immagini mentali in impulsi fisici.

Il ritorno al racconto vuole significare solo ed esclusivamente il ritorno ad una dimensione narrativa del teatro. Raccontare storie, ri-trovare un filo narrativo con gli spettatori sforzandosi di veicolare attraverso una storia tutta una poetica (che, evidentemente, non si riduce al solo piano del racconto).

Il ritorno al rito è il tentativo di coinvolgimento “altro” degli spettatori rispetto alle paludi dell’intrattenimento teatrale e televisivo. Tornare al teatro come rito significa costruire uno spettacolo e viverlo con il pubblico attraverso una sorta di rischio condiviso, dove le carni, i corpi degli attori pulsanti e percepibili costruiscono un meccanismo di partecipazione spiazzante, una “cerimonia” capace di toccare il cuore degli spettatori senza fargli male.

Quasi sempre gli artisti figli del Novecento teatrale ri-scrivono dai testi della letteratura drammatica, anche qui assumendo in pieno la “lezione” novecentesca e rimanendo coerenti fino in fondo con la scelta di pensare e praticare dinamicamente il passato. Anche i teatranti ospiti del progetto triennale 2022-2024 Itaca - Residenza per Artisti – lavoreranno in questa traiettoria. Il teatro ha qualcosa di singolare e anomalo: tramandarlo (quando decidi di veicolare un testo) e interpretarlo sono un gesto unico. Il teatro è comunicazione ed esiste nel momento in cui lo si attua: e nel momento in cui lo si attua, avendo per le mani un testo, non si può fare a meno di interpretarlo. Il gesto che conserva il testo, che lo tramanda, è fatalmente corrotto dalle infinite variabili legate al gesto di praticarlo. Ciò ha condannato il mondo del teatro a un eterno complesso di colpa nei confronti dei testi della letteratura drammatica: si teme costantemente di tradire l’originale perché si sente che è un modo di smarrirlo per sempre. Lo sdegno di un “filologo” che di fronte a un’interpretazione un po’ ardita sbotta nel classico “ma questo non è Shakespeare” equivale allo sgomento con cui si apprende il furto di un quadro da un museo. Ci si sente derubati. Questo timore ha inchiodato e continua in qualche modo ancora oggi ad inchiodare la pratica dell’interpretazione teatrale (nonostante il Novecento, ossia nonostante il secolo che segna l’avvento della regia prima e l’esplosione delle drammaturgie classicamente intese poi). Per uscire da questa impasse ci sarebbe un modo drastico e definitivo: avvertire una volta per tutte i “filologi” e un certo pubblico del teatro che l’originale non esiste. Che il vero Shakespeare, ammesso che si possa parlare di un vero Shakespeare, è stato smarrito per sempre. La storia è una galera dalle sbarre larghe. Qui si continua da parte di qualcuno a fare i secondini di un prigioniero evaso ormai da tempo. Volendo, non mancano motivazioni ovvie e elementari per suffragare una notizia del genere. Dai tempi di Shakespeare sono cambiate troppe cose: la prassi teatrale, il contesto sociale, i termini di riferimento culturali. Il teatro che pratichiamo oggi è lontano parente del teatro praticato allora, differenti sono i modi e le motivazioni sociali che condizionano la fruizione. Negli occhi si ha il cinema, la televisione, internet, nella mente parole d’ordine completamente diverse, nelle orecchie convivono Mozart e Madonna, Brahms e i jingles pubblicitari.

Si potrebbe andare avanti così per pagine. Ma in realtà non sono poi queste le ragioni che contano. Il nocciolo della questione è altrove. Come ha insegnato l’estetica novecentesca, nessuna opera d’arte del passato ci si consegna qual era in origine: a noi arriva come un fossile incrostato di sedimenti collezionati nel tempo. Ogni epoca che l’ha custodita vi ha lasciato il proprio segno. Ed essa a sua volta custodisce e tramanda quei segni, che diventano parte integrante della sua essenza. Tutto ciò sbriciola il totem della fedeltà all’opera. Non esiste un originale a cui rimanere fedeli. Quel che il “filologo” medio chiama il vero Shakespeare non è altro che “l’ultimo” Shakespeare prodotto dalle metamorfosi dell’interpretazione.

Esiste uno specifico contenutistico che possiamo ri-trovare nei “plot“  narrativi  che i teatranti ospiti del progetto triennale 2022-2024  Itaca - Residenza per Artisti – svilupperanno in residenza?

Dal punto di vista dei contenuti, delle storie che gli artisti scelti per le residenze sentiranno il bisogno di tradurre in azioni, immagini e visioni, saranno sviluppati lavori verso un territorio drammaturgico che potremmo definire come “teatro della crisi“.

Un “teatro della crisi“ che si ritrova strumento di denuncia, dove si cerca di “mettere in scena“ il malessere e le contraddizioni  del proprio tempo; senza più le illusioni di trasformazione della società nutrite negli anni sessanta ma con il peso e il senso di sconfitta di intere generazioni.                Il teatro diventa così un rituale preparatorio ad una fine imminente; ed è anche metafora del crollo di una grande illusione: la capacità di trasformare un mondo sempre più controllato dai mercati e dalle merci, dove l’impossibilità  del cambiamento, l’impotenza e l’inerzia divengono  rifugio  e il dramma individuale, privato e minimale viene vissuto come difesa e scudo all’immutabilità degli eventi.

Un “teatro della crisi“, quindi. Crisi di valori e d’identità e crisi del linguaggio che si esprime per rotture e crolli linguistici, per frantumazione di segni e per una particolare creazione di personaggi disturbati e nevrotici. Queste pratiche teatrali vogliono essere precisate da determinate connotazioni: alterazione del linguaggio, invenzione di una lingua, mutazione profonda del personaggio, predilezione per il mondo dei reietti e dei dimenticati, discussione interna alla stessa convenzione teatrale. Reinvenzione di un linguaggio e di una lingua ; linguaggio e lingua che cercano di ritrovare nuove comunità e nuovi pubblici.

Facendo una forzatura interpretativa possiamo notare come i protagonisti delle storie inventate e/o re-inventate che ospiteremo in residenza vivranno attraverso la “diade“ incanto/disincanto. All’ “incanto“ appartiene quasi sempre la prima  fase che potremmo definire “iconoclasta“, la rivolta, fatta di avversione rancorosa  verso le “istituzioni“ conosciute e riconosciute (lo Stato, la Famiglia, la Chiesa, la Legge, la Morale) vissute sempre come retaggio del passato, come “repertorio“ inquietante della cultura tradizionale, un fardello ingombrante. In questa prima fase la “speranza“, l’arma del grande riscatto è sempre, da parte del protagonista, la piena e irreversibile conquista della “modernità”, modernità qui intesa come sradicamento dalle istituzioni di cui sopra, modernità  come adesione incondizionata allo “spirito moderno“. La seconda fase, il “disincanto“, arriva sempre quando il personaggio in questione durante questa sua fuga in avanti si scontra con un fatto, una situazione, un oggetto, un episodio che gli rivela brutalmente la vera natura , l’essenza della modernità : il vuoto. E tale vuoto, che  “ (non) è “ per forza di cose altro se non “vuoto“ appunto (privo di un senso, di un tiro, di un respiro, di un disegno), tra gli uomini si configura come quel “sottosuolo“ (fisico e spirituale)  di cui narrò F. Dostoevskij che era ed è la quintessenza di ciò che chiude l’uomo nel cerchio dell’odio e della lotta, che lo fa arroccare su se stesso, condannandolo a macerarsi nella solitudine e nella disperazione. Una volta che il nostro personaggio prende coscienza di tutto questo inizia un’azione di recupero; l’amore, la madre, il padre, la terra, la carità, la bellezza, la comunità, insomma tutte le “facce“ del mondo d’appartenenza, dell’origine bestemmiata e rifiutata, ri-emergono. Ma non c’è spazio per alcun “romanticismo“ da conversione, tantomeno per facili  trionfalismi sulla presunta verità trovata. La nuova dimensione raggiunta dal nostro protagonista è estremamente problematica.

“Un teatro pensato in grande ma fatto in casa”. Questa definizione (presa in prestito da Ferdinando Taviani, studioso dei teatri del Novecento che, in un suo scritto del 1995, provava a definire culturalmente alcune esperienze teatrali indipendenti ) riesce più di altre a rappresentare l’avventura artistica degli attori e dei registi che ospiteremo nel progetto triennale 2022-2024  Itaca - Residenza per Artisti –.

Se proprio dobbiamo definirli, possiamo dire che questi teatranti provano a realizzare un teatro pensato in grande ma fatto in casa. Ed è la categoria del “fatto in casa“ che ci sta più a cuore, quella che più ci piace e ci diverte nel gioco di rimandi e libere associazioni tra teatro e cucina.

Il sapere tramandato, il rigore del fatto a mano, i prodotti della terra, i tempi del cucinare, la reinvenzione delle ricette con quel poco che si ha in dispensa, il rito del pasto, la consapevolezza di mangiare un piatto veramente unico, di produzione limitata e distribuito innanzitutto a chi desidera stare insieme e così via dicendo. Il parallelismo tra cucina casalinga e arte scenica, a nostro avviso, inquadra con una certa efficacia la situazione di quei teatri indipendenti (tra cui il nostro) che vivono ai margini del sistema teatrale e che lavorano per intercettare un nuovo pubblico. Questi teatri fatti in casa sviluppano progetti artistici che vivono nell’artigianato attorale, nella qualità di intelligenza e provocazione delle visioni elaborate, nelle quotidiane costrizioni di ogni tipo che siamo chiamati inevitabilmente a ribaltare in creatività, la creatività dei corpi e dei segni. Un teatro pensato in grande ma fatto in casa.

Al di là delle facili formule, ciò che ci interessa è di agganciarci a quella somma di esperienze che hanno, negli ultimi trentacinque anni, modificato profondamente il linguaggio teatrale e le capacità e le possibilità produttive nel segno di una forte tradizione dell’agire teatrale, portando ad acquisizioni che sono diventate oramai patrimonio di tutti.

Al centro del nostro impegno, come Teatro del Sangro, abbiamo posto la ridefinizione della posizione del teatro rispetto all’intera comunità, elaborando percorsi che provano continuamente a ri-collocare la nostra arte rispetto alle persone. Chiaramente ospiteremo nel progetto triennale 2022-2024  Itaca - Residenza per Artisti – artisti in linea con questo percorso.

Il Teatro pubblico in Italia è quasi esclusivamente messa in scena, interpretazione di testi. Il suo rinnovamento non dipende dal fatto che si rappresentino testi novecenteschi invece che testi ottocenteschi. Non si vuole dire che la messinscena non sia interessante, ma si pensa che oltre alla messa in scena di testi bisognerebbe considerare altri procedimenti. La composizione, per esempio. Molti autori praticano da tempo procedimenti compositivi. La composizione, più della messinscena, valorizza il lavoro di attori, scenografi, musicisti, fino a comprenderlo nel procedere teatrale invece che come supporto alla parola. Il teatro sembra ancora percorso dalla contrapposizione fra “tradizione“ e “avanguardia“. E’ la lettura più facile, più grossolana. La reale dinamica storica si svolge invece fra sistemi teatrali unificati a livello nazionale, ed enclaves, eccezioni, isole non isolate. La comprensione di questa dialettica è essenziale se si vuole pensare la politica teatrale d’oggi ed il problema dell’indipendenza. Le due forze che realmente si scontrano al di sotto dei veli teorici e di gusto, al di sotto delle scaramucce fra poetiche e teoresi avanguardistiche o no, sono quelle di chi pensa ad una riorganizzazione generale del sistema teatrale e quelle di chi invece persegue il mantenimento dello status quo.

Noi riformuliamo con forza un teatro necessario per luoghi piccoli, angusti, per  spettatori – talpa, per scatti  di coscienza e di consapevolezza. Vogliamo avere un interlocutore privilegiato: lo spettatore “che cerca”, ovvero quello che non si riconosce negli standard di un’offerta culturale istituita per assecondare quella domanda di un teatro d’abitudine che conserva i repertori. E’ lo spettatore che cerca di conoscere il teatro, cosa ben diversa dal “riconoscerlo”, secondo il principio psicologico rassicurante sul quale si fonda la programmazione dei soliti testi, magari interpretati da qualche attore noto, a sua volta riconoscibile.

Compagnie e artisti in residenza

Teatro ANDAMIO ’90 (Argentina)

Compagnia NoveZeroSei  (Abruzzo, Italia)

Vito Signorile e Antonio Stornaiolo (Teatro Abeliano, Italia)

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ultima modifica 2023-02-07T10:41:15+01:00
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