Residenza di Yoshito Ohno
La costruzione di azioni, fatti, situazioni, congiunture e lo sviluppo di queste ultime rappresentano uno dei fili rossi del cartellone teatrale della nuova stagione di Laminarie che si intitola, come ripetuto più volte, Contesto.
Nei precedenti incontri della rassegna, si è parlato di confini fisici - barriere e frontiere - e di confini linguistici che hanno portato al racconto di storie di vita degli abitanti del Pilastro. Anche in questa residenza il linguaggio possiede un ruolo centrale, sebbene non aderisca più alla sua forma verbale bensì a quella corporea: la lingua che smuove e commuove il corpo.
La seconda residenza artistica presso il teatro DOM ha visto come ospite Yoshito Ohno, figlio ed erede artistico del maestro Kazuo Ohno (1906-2010), figura leggendaria del butoh.
Dal momento che l’arte butoh lavora per immagini, ho deciso di improntare questo report a partire proprio da quelle che ho personalmente osservato durante le prove e quelle che mi hanno descritto i partecipanti coinvolti in questo progetto.
Ho portato alcune testimonianze relative al loro essere qui e al loro prenderne parte. Dichiarazioni e prese di coscienza “in trasformazione” proprio come è il lavoro realizzato dagli artisti creatori di Jokyo, spettacolo conclusivo a cura di Yoshito Ohno e Febo Del Zozzo che ha come tematica centrale quella di mettere in dialogo l’idea di “contesto “ del maestro giapponese assieme a quella dell’artista, regista, nonché direttore artistico italiano. Durante i giorni di permanenze del maestro Ohno sono state riprodotte, attraverso l’utilizzo di parole e di alcuni oggetti, descrizioni visive dalle quali partire per dare l’avvio al laboratorio. Da specificare che questa residenza è particolare proprio perché ha coinvolto sette giovani non professionisti tramite un workshop gratuito nel quale le arti di ciascun artista si sono annusate, scoperte e fuse dando vita al progetto proposto.
Entrando nel vivo dell’esperienza artistica ricreata a DOM ad alcuni dei partecipanti ho chiesto cosa per loro fosse il “contesto”. Alcuni non ci hanno mai riflettuto troppo, per altri, come a esempio Gabriele, il contesto si avvicina più a un'atmosfera contrita, stordita, in una costante dialettica tra isolamento e unione con il gruppo, che presenta una tensione molto forte alternata a momenti di sordo ritiro. Per Olivia è equivalente all’atto di osservare, stabilire una posizione, prenderne parte, abitarla e farla propria. Per Ester invece è una parola densa e avvolgente, evocatrice del concetto di “atmosfera", lo definisce come una “colla invisibile che amalgama singoli elementi determinando l’ambiente, ma che tuttavia richiama un suono duro, spezzante e ineludibile”.
I primi incontri con Yoshito Ohno prendono il via dall’idea di spazio e di quanto sia fondamentale incontrarlo, percepirlo, toccarlo a partire dal proprio corpo, dalla stanza in cui si trovano, dal pavimento al soffitto fino ad espandersi oltre le pareti. Averne quindi una consapevolezza in senso fisico e mentale, rispolverando memorie che i corpi possiedono, quindi i meccanismi per incontrarlo e interagire con esso. A proposito di ciò, un aneddoto esemplificativo citato da Yoshito Ohno è quando suo padre, Kazuo, ha costruito uno stadio-palestra mattone dopo mattone. Ogni volta che entrava in quello spazio era come se lo abbracciasse, se gli dicesse ”Quanto tempo! Volevo rivederti, riabbracciarti". Un senso di accoglienza che equivale al modo in cui l'artista entra in contatto con il pubblico, che di fatto è parte di quello spazio a cui si collega la percezione visiva. Così è anche il lavoro di Febo Del Zozzo, molto più fisico, di conoscenza materiale del luogo, di corpo in tensione, di muscoli, di piegamenti, di sedersi a terra e rimettersi in piedi. Lo spazio si vive con il ritmo, con il ticchettio sonoro dei passi, quindi la consapevolezza più materiale di un corpo performante che si plasma grazie a una definizione sonora prodotta fisicamente.
Yoshito Ohno con il susseguirsi dei giorni introduce un altro fattore determinante nella cultura giapponese: "In Giappone si tende a camminare sempre dritti. Non importa il modo quanto la direzione. Bisogna immaginare di andare oltre i confini del luogo in cui siamo". Febo Del Zozzo, dal canto suo, lo spazio lo fa attraversare in maniera collettiva; tanti corpi che si muovono e che camminano stretti e compatti. Il suo contesto è oppressione, soffocamento, chiusura e il camminare rappresenta proprio questo moto d’animo.
Successivamente ho domandato ai partecipanti come si stessero vivendo i due concetti di contesto avviati dagli artisti. Sin dall’inizio della residenza infatti le giornate sono state suddivise in due sessioni: la mattina con Ohno e il pomeriggio con Del Zozzo.
Per Marzio le due visioni a un primo approccio sono totalmente differenti, quasi agli antipodi, con due metodi di lavoro diversi. In verità, con il proseguire e il procedere delle prove e dei giorni, si sono intravisti moltissimi punti in comune. "Per esempio abbiamo lavorato moltissimo sul ritmo, sul corpo, sul luogo e sul suo concetto, in modi differenti sul contatto, sul rapporto con l’altro e quindi su noi stessi".
Per Gabriele entrambi trasmettono sensazioni e idee interessanti, per quanto siano piuttosto diverse. “Il contesto di Yoshito Ohno dà spunti auto-riflessivi, gli permette di vivere con molta lentezza le emozioni, quasi si trattasse anche in parte di un lavoro introspettivo. Mentre il contesto di Febo Del Zozzo rende evidente la necessità della presenza costante del gruppo che agisce in giochi di tensioni e rilasci nello spazio, che lavora direttamente su un macro-organismo composto da diversi corpi, nel quale il contributo di ognuno è essenziale e fondamentale”. Per Olivia il contrasto dei due contesti si racchiude proprio nell’incontro tra due modalità apparentemente molto distanti, eppure ad alta capacità di commistione. “Il lavoro sulla compressione e decompressione che stiamo sperimentando con Febo Del Zozzo mi ricorda la malleabilità della seta grezza che ci ha donato Yoshito Ohno, metafora della forza e delicatezza, compattezza e fluidità, caratteristiche comuni - anche se in forma diversa - ad entrambi i contesti dei due artisti”. Per Ester infine il lavoro svolto è contenuto in un binomio curioso.
“Febo Del Zozzo, in un certo senso, è a casa sua: il luogo di lavoro è quello in cui opera da anni. Sa dove e come muoversi, conosce i segreti e le potenzialità tecniche del posto. Mi viene in mente l'immagine di noi, ragazzi, riuniti intorno a Febo mentre ci spiega come annodare correttamente le corde di scena, a quali tavole sospese corrispondano, perché alcune di esse rechino una banda colorata all'estremità...
Yoshito Ohno giunge da un contesto molto distante, geograficamente e concettualmente: è lo "straniero" vestito di nero che comunica attraverso il supporto di una interprete, ma soprattutto grazie alla propria straordinaria efficacia comunicativa, che passa attraverso i suoi gesti, il suo sguardo, la sua postura. Anche il metodo di lavoro è differente: Febo si focalizza sull'aspetto materico e fisico della scena, Yoshito Ohno innesca il principio di un percorso di esplorazione interiore, traducendolo poi in azioni. Il punto di convergenza è nello spazio, nello specifico lo spazio nel quale ci troviamo ogni giorno per lavorare. Poi, naturalmente, in questo genere di situazioni si creano delle dinamiche di scambio molto interessanti. In base ai racconti di Yoshito Ohno apprendiamo alcune conoscenze in merito alla storia e alla cultura giapponese, oltre che all'ambito teatrale: scopriamo un diverso modo di concepire il finale dell'opera, la severa codificazione degli inchini... e ricambiamo il favore, offrendo la nostra visione. Ma, intanto, una lampadina si è accesa”. Come nella precedente, anche in questa residenza il linguaggio utilizzato è stato veicolante di concezioni di idee ed emozioni che riconducono non solo al pensiero cardine dei due artisti che hanno dato vita a Jokyo, ma ne ha mostrato i sostrati culturali e i sovra-pensieri che indirizzano le linee guida dell'espressione artistica del regista italiano e del maestro giapponese. Durante le prove di creazione un'altra peculiarità raccontata dal maestro è di quanto sia importante la chiusura di un’opera, la fine, la conclusione d’essa, mentre in occidente non è sempre così poiché molta importanza ad esempio ce l’ha l’inizio della creazione, l’attacco della performance.
Consapevolezza che seppur siano stati differenti nel metodo, nella concreta essenza del concetto di “contesto” entrambi gli artisti hanno dei punti in comune come la visione della vacuità, dell’esserci e non esserci, vedersi ma al contempo utilizzare lo sguardo per andare oltre lo spazio. Nel butoh la presenza scenica c’è e non c’è, nel lavoro di Febo Del Zozzo l'utilizzo della scenografia è resa visibile e aziona i meccanismi che ne attivano i componenti strumentali della scena, per andare oltre questi ultimi. La direzione intenzionale infatti oltrepassa le corde agitate e sciolte, le travi di legno lasciate cadere dall'alto verso il basso fino a raggiungere l’universo che c’è all’interno del nostro corpo e all’interno dello spazio teatrale, il quale come un grembo materno dà origine alla creazione di vita perfomativa. Altra similitudine ruota attorno all’utilizzo del ritmo. Nel butoh è presente il tamburo, che sembra scandire l’oppressione. Quando ho chiesto al maestro giapponese cosa fosse per lui il contesto mi ha mostrato un’immagine di Francis Bacon. Un contesto piangente che si ricollega alle guerre. Nel lavoro di Febo Del Zozzo il ritmo è stato essenziale per la presenza in scena di ogni partecipante, che rimanda a un’ulteriore concordanza: la definizione del luogo con il camminare. A ogni passo, lo spazio si riempie di paesaggi, odori, oggetti e sensazioni. Essere in un luogo e stabilire delle sensazioni con l’ambiente. Una frase fondamentale dell’arte butoh è “indossare il cappello per diventare orso”, ovvero la danza che si moltiplica in punti di vista per accogliere diverse esistenze compresenti all’interno di noi stessi. Spazio inteso come corpo stesso, la superficie che una persona occupa, che riesce a creare e a modificare con la qualità della propria presenza. L'anima come cosmo; universo che diventa il contenitore del corpo e il corpo che, in direzione reciproca, diventa a sua volta contenitore dell’anima. La memoria si accumula in tutte le parti nel nostro corpo, qui inteso come il macro organismo a cui ha dato vita Febo Del Zozzo con le diverse singolarità dei partecipanti, cioè i micro-organismi dai quali parte il butoh che diventano luogo, spazio, universo, macro-organismo: un fiore, che per la danza giapponese è il simbolo del centro, l’anima.
Le foto pubblicate sono del fotografo Mario Carlini.
Alcuni approfondimenti
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